La fotografa franco-marocchina Leila Alaoui, 33 anni, è morta il 18 gennaio, in un ospedale di Ouagadougou, due giorni dopo essere stata ferita nell’attentato commesso dai terroristi di Aqmi nella capitale del Burkina Faso. Leila si trovava «in missione» nel Paese africano per un lavoro che le era stato affidato da Amnesty International. Così hanno riferito agenzie di stampa e giornali, senza soffermarsi a spiegare le ragioni di un assassinio tutt’altro che casuale.
Leila non è stata colpita a caso da pallottole vaganti, come si usa scrivere con svagata leggerezza. È proprio a lei, senza sapere chi fosse, che hanno mirato. Le hanno sparato perché era uno sberleffo al loro fanatismo. Era seduta in terrazza nel caffè-ristorante Le Cappuccino e al posto del velo indossava la sua sfrontata bellezza. Neanche un foulard aveva in testa, a nasconderle quella sua vergognosa chioma che sembrava la pubblicità di uno shampoo.
L’hanno uccisa perché era franco-marocchina, ma si vestiva come una francese, ti guardava negli occhi come una francese, sorrideva al mondo come una francese. La parte marocchina di sé, l’altra sua metà, la metteva nelle sue foto. Per far capire al mondo che «marocchino» è una parola svelta da dire, spesso un’ingiuria, ma complicata da spiegare. Con le sue immagini riusciva a farti capire di quante facce, in senso proprio e figurato, fosse fatto il «suo» popolo. I risultati della sua ricerca si possono intravedere nella piccola galleria qui di seguito e apprezzare ancor meglio sul suo sito.
Sono foto tratte dalla serie «Les Marocains», esposte alla Casa europea della fotografia nell’ambito della Biennale dei fotografi del mondo arabo contemporaneo, che si era chiusa il giorno precedente la morte di Leila.
Per realizzare questa serie, Leila aveva trasportato uno studio mobile attraverso il Marocco, come ha raccontato nel sito della Maison européenne de la photographie (Mep).
«Attingendo alla mia eredità, ho vissuto in diverse comunità e usato il filtro della mia intima posizione di marocchina di nascita per rivelare, in questi ritratti, la soggettività delle persone che ho fotografato», arabe o berbere che fossero, spiega Leila.
Oltre a mettere in comunicazione due mondi, Leila voleva documentare, «costituire un archivio visuale delle tradizioni e degli universi estetici marocchini che tendono a scomparire per effetto della globalizzazione».
Il suo progetto in fieri è stato spazzato via dalla brutalità dell’ignoranza, da una guerra santa che procede a raffiche di mitra e conversioni forzate, in nome di una sedicente Verità Assoluta e Unica, che intende cancellare ogni varietà culturale dalla faccia della Terra. E la cui ferocia è ben peggio della globalizzazione giustamente temuta da Leila.
La fotografa franco-marocchina rinfacciava all’Occidente l’uso strumentale dell’esotismo nordafricano, in architettura, nell’arredamento, nella moda. Ai suoi colleghi rimproverava di usare il suo Paese d’origine come un fondale scenografico «per dare un tocco di glamour, relegando la popolazione locale in un’immagine di rusticità e di folclore, perpetuando in questo modo lo sguardo condiscendente dell’orientalista». Forse un po’ colonialista, verrebbe da aggiungere.
Leila voleva «controbilanciare» questo sguardo adottando per i suoi ritratti «delle tecniche di studio analoghe a quelle di fotografi come Richard Avedon nella sua serie In the American West, che mostrano personaggi orgogliosamente autonomi e di una grande eleganza, mettendo in luce la fierezza e la dignità innate di ogni individuo».
Non avrebbe potuto spiegarsi meglio, Leila. Non avrebbe potuto fare meglio. Ma chi continuerà a farlo, dopo di lei? La globalizzazione delle culture ci uccide dentro, la globalizzazione armata di Kalashnikov ci dà il colpo di grazia. (is)
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